
06 Giu Istantanee: La bellezza dell’imperfezione
Ci siamo. Il timer del forno mi dà il via per sfornarli.
Mi capitava qualche volta, soprattutto la sera dopo cena, una volta sistemati i bimbi, di mettermi a preparare i biscotti. La stanchezza pesava, così come il senso di incertezza che attraversava le mie giornate, sottile, spietato, tra un lavoro che non amavo e quel senso di responsabilità ferreo che mi ha segnata profondamente fin da ragazza e che mi ha impedito di scivolare fuori dalle mie abitudini spesso soffocanti.
Il profumo di cioccolato è qualcosa di indescrivibile. Sempre nuovo, sempre lo stesso. Solo che adesso sa di qualcosa che è più vicino a me. Sa di calma, di serenità conquistata.
All’epoca Sandro se n’era già andato. Prima dietro alla sua amante poi di corsa dalla parte opposta dei suoi creditori. E io inchiodata in un appartamento grande abbastanza per i ricordi di un matrimonio tranquillo solo in superficie che sbiadiva poco alla volta come veccchie tovaglie in un baule. I chili e i capelli che perdevo in quell’esaurimento nervoso erano tracce di me che si sgretolavano.
A scuola Tommaso iniziava a dare i primi segnali delle proprie difficoltà relazionali.
I colloqui, le maestre che mi squadravano, le corse in bicicletta nel traffico anche con la pioggia, il suo zaino troppo pesante, il suo mutismo che mi assordava tra i clacson e le imprecazioni degli automobilisti inferociti. Le visite mediche di mia madre, le attese nelle sale d’aspetto. Giulia che cresceva a vista d’occhio, bella e sognatrice, ingenua e decisa nei suoi slanci creativi. Giulia così responsabile nella sua adolescenza impeccabile, come se non avesse mai subito ferite dal mondo. Fino a quando le ferite non gliele vidi. Sulle gambe.
Non so come ho fatto a sopportare il carico da sola. Eppure non c’è niente di eroico nell’aver mantenuto fede al mio ruolo. Né mi aspettavo qualcosa in cambio per le rinunce, per le privazioni, per i tormenti che mi hanno fatto compagnia la notte, per anni.
Non c’erano premi, né riconoscimenti materiali ai minuti di panico assoluto che mi imprigionava sotto la doccia. Tantomeno applausi per i chilometri di distanze percorse a piedi nudi per sfiorare questi miei figli nascosti sotto strati di silenzi come il loro padre assente.
Per restare ancorata a me stessa, capitava qualche volta che mi mettessi a preparare i biscotti. Il ricettario di mia madre sulla mensola. Sento ancora il fruscio delle sue gonne.
Non erano mai nulla di speciale quei miei biscotti, non ce n’era uno identico all’altro, né per forma né per doratura. Non c’era perfezione, né armonia completa in quei biscotti. Somigliavano ai miei giorni. Ma erano buoni, di una bontà delicata, quasi anonima, priva di eccessi e fronzoli, priva di fuochi d’artificio. Era sapore sostanzioso, presenza che nutriva al di là dell’aspetto.
Forse somigliavano a me, al mio essere più madre che donna, con tutte le sue pene e le sue gioie.
Una vita intera in questo appartamento piccolo abbastanza per essermi caro come un nido. Adesso che sono sola, adesso che ho me stessa per intero.
Il campanello.
Il mio cuore ride come sempre, svolazza come una falena verso la luce.
Apro la porta al mio amore grande che mi salta in collo gridando:
“Nonna!”
Ecco, questi biscotti che profumano di cioccolato sono anche per lui, adesso.